Al Teatro di Budrio le rime giullaresche interpretate da Matteo Belli [L’INTERVISTA]

16 febbraio, 2017

matteobe2Sabato 18 febbraio andrà in scena al Teatro Consorziale di Budrio Matteo Belli con Genti, intendete questo sermone. Lo spettacolo vedrà Belli interpretare alcuni testi giullareschi medievali e moderni, preceduti da una breve introduzione storico-critica. L’ultimo brano, di cui lo stesso Belli è autore, omaggia il grammelot, antica tecnica onomatopeica che imita altre lingue impiegando solo poche parole riconoscibili.

Genti, intendete questo sermone è uno spettacolo particolarmente nelle sue corde, sia perché testi di questo tipo valorizzano la sua straordinaria espressività, sia per la sua preparazione sull’argomento, si è infatti laureato in Lettere Moderne con la tesi Rime giullaresche e popolari d’Italia. Dello spettacolo e dell’omonimo libro che verrà presentato il 28 febbraio alle Torri dell’acqua abbiamo parlato nell’intervista a seguire.
L’attore è stato per molti anni uno degli ospiti più importanti del Consorziale, dove ha portato in scena sia testi classici che popolari, distinguendosi per la sua straordinaria capacità di interpretazione, la consapevolezza linguistica e lo stile molto personale che si riallaccia a quello dei giullari e al teatro medievale. Alcuni degli spettacoli che l’hanno visto protagonista nel nostro teatro sono indimenticabili, ricordo l’eccezionale Del mondo ho cercato, in cui recitava Dante, Petrarca e testi giullareschi accompagnato da musiche medievali dal vivo, Ora X: l’inferno di Dante, gustosissima reinterpretazione dell’Inferno o il Concerto dal VI libro dell’Eneide. Lo abbiamo apprezzato anche negli ultimi anni: nel 2010 con Porci, ninén, busgat e bagoin, in cui interpretava testi medievali e moderni sul maiale, e nel 2012 con Le maschere di dentro da Italo Calvino.

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Parlaci dello spettacolo in scena sabato…
Lo spettacolo nacque nel 2000 per un lavoro che avevo cominciato a fare sulla letteratura popolare e  giullaresca del Medioevo italiano ed è un insieme di testi originali, riscritture mie e un mio brano. È legato a un principio che ha costituito la colonna vertebrale del mio rapporto con la letteratura in scena: i giullari scrivevano per la scena. Quindi due secoli prima del 1480, quando si fa iniziare il teatro moderno italiano con La favola di Orfeo di Angelo Poliziano in Italia c’erano autori che scrivevano opere letterarie perché fossero recitate in scena. Quindi parliamo già di una letteratura drammaturgica destinata all’interpretazione attoriale, interpretazione che poteva essere su un qualsiasi tipo di palcoscenico, la corte di un signore, la piazza, il sagrato di una chiesa… Può sembrare secondario, ma apre una questione di primissimo piano: che cos’è la parola scenica, che utilizzo ha e quindi che tipo di vitalità può avere. La scrittura in questo caso è destinata ad essere letta mentre viene interpretata, ed è una cosa completamente diversa dalla scrittura di tipo letterario in cui lo scrittore sa che verrà letto in un altro momento da un lettore con il suo proprio tempo. Quindi cambia completamente la sensazione, la consapevolezza dell’uso che si fa della parola.

Nei tuoi spettacoli si percepisce la ricerca che hai fatto sul testo che interpreti, ce ne parli?
La questione centrale è proprio cos’è la parola scenica. È un discorso che sembra astratto ma si fa pratico quando ti vai a misurare con un punto di vista interpretativo ed entri nelle questioni più profonde di questo modo di lavorare sulla parola che diventa scenica. E per un attore dovrebbe essere materia di insegnamento fondamentale: si fa tanto lavoro sull’interpretazione, sul personaggio, sul testo drammaturgico, ma spesso quando vediamo un attore che si misura con la letteratura casca un po’ l’asino e la fa sembrare anonima, lettera morta. E invece no, la parola è sì un simbolo, ma è assolutamente vitale e quando diventa scenica cambia la sua natura. Per tramandarla bisogna avere coraggio operando scelte che secondo me sono quelle più profonde e sensate sull’interpretazione, quali che tipo di voce usare, che tipo di lavoro fare sull’intonazione, sulle pause, sulle legature, sull’allitterazione… Questo è il lavoro che ho continuato a fare su Dante, Virgilio, su tutto il repertorio letterario di cui mi sono occupato, con le differenze dovute al testo, all’autore, alle sue coordinate storico-geografiche. La parola ha una vitalità che non può rimanere lettera morta, limitarsi a riferirla è offensivo al testo e allo spettatore. L’attore che non interpreta semplicemente non è.

Ricordo una riflessione alla fine di “Del mondo ho cercato”, più di dieci anni fa, in cui esprimevi preoccupazione sul futuro del teatro. Cosa ne pensi oggi?
Sì, era marzo 2005, pensa oggi cosa potrei esprimere! Qui stanno saltando tutti i criteri, non solo economici, ma anche di finalità, di funzionalità del teatro. L’unico aspetto vitale e ottimistico che posso osservare è la crescente richiesta di formazione teatrale da parte degli ambienti più disparati, le scuole, le imprese, i gruppi di lettura, i cantanti…
Sicuramente siamo in un momento di passaggio e bisogna inventarsi nuovi approcci. Che va bene, ma dal mio punto di vista quando si perde la perizia artigianale di questo mestiere, non si può più parlare di teatro. Dobbiamo stare attenti a non buttare via tutto, rinnovare e guardare avanti sì, ma senza perdere la sensazione, l’emozione di questo lavoro, che è un lavoro umano, dell’uomo per l’uomo, che produce sensazioni, emozioni. È uno dei mestieri più antichi perché più naturali e connaturati all’uomo. Soprattutto oggi che facciamo tutto attraverso la mediazione informatica il teatro ci ricorda cosa vuol dire guardare negli occhi una persona, parlarci direttamente, usare il corpo, la voce dal vivo, non dirsi “ti amo” attraverso una chat. Questo è un compito molto serio che ha oggi il teatro: ricordarci la nostra umanità.

Genti, intendete questo sermone è anche un libro che verrà presentato alle Torri dell’acqua martedì 28 febbraio…
Sì, il libro raccoglie un ampio stralcio della mia tesi di laurea sulla poesia medievale e popolare giullaresca italiana, che discussi all’epoca con il professor Emilio Pasquini, che sarà presente. Avremo quindi l’onore di ospitare uno dei più grandi italianisti e dantisti del mondo. Il libro comprende poi i testi e il dvd dello spettacolo. È uno strumento, una testimonianza che spero potrà essere accolta come una creatura vivente, interrogata sotto l’ombrellone o su una scrivania, proprio per chiedersi un pochino cosa facciamo quando ci esprimiamo, cosa succede quando usiamo le parole per comunicare con gli altri.

Si tratta di uno spettacolo particolarmente importante per te, come lo vivi da attore?
Sì, è uno spettacolo centrale della mia storia, fondamentale anche per tutto quello che ho fatto dopo. Uscire di scena dopo uno spettacolo è sempre un momento particolare, qualche volta si esce stanchi morti, a volte felici, altre volte arrabbiati neri. Quando finisco questo sento sempre una sensazione di festa che mi ricorda il famoso verso di Feo Belcari “facciam festa et giulleria”.

Ludovica Piazzi

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